sabato 16 luglio 2011




ERRORI E CONTRADDIZIONI RISCONTRABILI NEL CORANO


 "Rari e felici i tempi in cui è permesso di pensare ciò che si vuole, e di dire ciò che si pensa" (Tacito, Historiae, I,1)

LA CRITICA NON CONOSCE TESTI INFALLIBILI (Ernest Renan)



Nel nome di Allah, clemente e misericordioso:

“Oggi vi ho reso perfetta (definitiva) la vostra religione (din) e ho compiuto su voi i miei favori e mi è piaciuto darvi per religione l’Islam” (sura 5,3). “La religione presso Allah è l’Islam” (sura 3,19). “Tutto ciò che è nei cieli e sulla terra si sottomette all’Islam, la religione di Allah” (sura 3,83)

“L’Islam è politica o non è niente…i politici hanno ereditato il compito di edificare una comunità che non sia altro che lo Stato di Allah, in cui il sacro si unisce al quotidiano, tramite la lotta violenta alla miscredenza”.

“La spada è la chiave per il Paradiso”.



Queste dichiarazioni attribuite all’Ayatollah Khomeini non lasciano dubbi: l’Islam è una religione ridotta a instrumentum regni per l’attuazione di interessi politico-ideologici. Nell’Islam non c’è separazione tra stato e moschea, tra politica e religione. L’Islam è una teopolitica, fondata su una religione immanente, pratica, sociale, che ha come precipuo scopo politico la lotta violenta alla miscredenza, cioè all’annientamento e all’assoggettamento del nemico assoluto: il miscredente (ateo o credente in una religione diversa dall’ortodossia islamica). La supina accettazione di questa ideologia politico-religiosa totalizzante (assimilabile sotto molti aspetti al fascismo, giacché esclude e discrimina in base alla fede religiosa, non alla razza o alla classe sociale), se inculcata in individui psicopatici o psicolabili, li trasforma in fanatici burattini manovrati da ideologi islamisti radicali per compiere atti di terrorismo volti a distruggere diritti e libertà umane. La causa principale del radicalismo militante islamico è l’ideologia islamica. La priorità dell’Islam, dunque, è il dominio politico-religioso sul mondo intero (imperialismo islamico), mediante la costituzione di una comunità di credenti (ummah), teocraticamente governati, che ha lo scopo precipuo di combattere il male, non quello che traligna nell’animo umano, bensì quello costituito dalla miscredenza (cfr. sure 2,161-162.171; 3,28.85; 5,120; 8,12-18.39.67; 9,29; 33,57.61; 34,32; 37,13.16.35; 48,28-29, e altre analoghe). Le Moschee e le Madrasse (scuole coraniche) fungono da palestre per la mente, in funzione della catechizzazione di massa alla “vulgata” coranica, predisponendo lo spirito dei musulmani alla lotta contro gli infedeli, considerati nemici dell’Islam. I musulmani, nuovo popolo eletto di Allah, cui professano fede incondizionata, estendendola al suo invitto Profeta, si sottomettono e obbediscono a “colui che sta in cielo” e al suo infallibile “portavoce” in terra, rappresentato da sedicenti suoi epigoni (sura 3,104.110). Accettando di essere servi di Allah, legislatore divino, i musulmani devono anche ottemperare scrupolosamente ai doveri religiosi, prettamente rituali, e alle norme giuridiche da Lui decretate. La società islamica, ancorché politicamente frammentata in stati dittatoriali, è organizzata come inscindibile comunità religiosa (ummah), governata dalla Shari’ah, l’immutabile, indiscutibile, invalidabile, presunta legge sacra di Allah, da Lui rivelata al beduino Maometto, tramite un servizievole angelo poliglotta di nome Gabriele. Gli ossequiosi servi di Allah gabellano tale presunta legge divina per verità sacrosanta, assoluta, conforme persino (miracolo!) alle recenti scoperte della scienza. Il marchio che contraddistingue il servo di Allah e denota la sua appartenenza a un supposto padrone soprannaturale, non sono le stigmate che segnano la passione di Cristo sul corpo di esaltati mistici cristiani. Lo stigma del devoto musulmano è la rinuncia alla ragione critica, è l’assoluta sottomissione a una tirannia teocratica, che impone norme immodificabili di diritto divino e una distorta sopravalutazione della cultura religiosa. Il musulmano ubbidiente parla il linguaggio servile che il suo potente, invisibile signore e padrone, dimorante oltre i misteriosi abissi dei cieli, vuole ascoltare. Da Lui il musulmano spera di ottenere, dopo la morte, l’ambito premio di una vita gaudente nel lussureggiante paradiso extragalattico, dove godere eterni sollazzi e copule con avvenenti fanciulle sempre vergini. Il sistema politico-religioso teocentrico dell’Islam, per le suddette ragioni, è radicalmente antitetico a quello dei governi democratici, dove la maggioranza delle persone (non un’ipotetica divinità) decide ciò che deve essere o non deve essere legale. Il sistema politico democratico, infatti, ha il suo fondamento nel brocardo del giureconsulto romano Gaius (180 e.v.): “La legge è ciò che il popolo comanda e stabilisce”. Nella concezione islamica, invece, l’unico supremo legislatore è Allah (sura 6,57), in nome del quale si legittima il potere civile dei governanti. Se nella concezione paolina del cristianesimo ogni autorità ha piena legittimità, giacché proviene da Dio, nell’Islam l’autorità governa con le leggi di Dio. Il preminente dovere del musulmano è ubbidire a Maometto, che recita il “verbo” di Allah (sura 4,59), che si crede sia stato integralmente trascritto nel Corano, anche se la redazione del medesimo è avvenuta qualche tempo dopo la sua morte, racimolando sparse, superstiti memorizzazioni. Il giudizio (cioè il potere, il governo, il diritto positivo) deve essere conforme alla legge che Allah ha rivelato ai beduini tramite il suo Messaggero (sure 5,49; 12,40). Ciò implica la necessità che lo stato sia (e non può non essere) islamico. Miscredenti, iniqui, perversi sono così tacciati coloro che non giudicano (non governano) secondo la Rivelazione di Allah (sura 5,44.45.47). Ne consegue che chi disobbedisce ad Allah e a Maometto palesemente si travia (sura 33,36). Prosperano invece i musulmani obbedienti (sura 24,51). Il diritto rivelato da Allah ai musulmani, per bocca del suo eletto Profeta, è completo e perfetto (sura 16,89), essendo perfetta la religione islamica (sura 5,3); ne consegue che i diritti dell’uomo prescritti nel Corano, giacché sono fondati sull’infallibile e immodificabile Rivelazione di Allah, hanno (e non possono non avere) eterna validità in ogni luogo. Essendo il diritto musulmano supposto perfettissimo, non è ammissibile la critica, pena la condanna a morte del temerario che osasse sfidare l’ira divina e quella più temibile e tangibile dei suoi interpreti terrestri, giudici inesorabili di sentenze (fatawa) di morte.

Il Corano (sure 2,112; 3,19; ecc.) predilige chiamare i seguaci dell’Islam con il termine “musulmani”, cioè sottomessi alla volontà di Allah. In Occidente sono stati denominati “saraceni” (forse dal nome Sara, moglie di Abramo) o “ismaeliti” (da Ismaele, supposto capostipite del popolo arabo, figlio di Abramo e della schiava egiziana Agar, sua concubina). L’affermazione del Corano (sura 2,125-127), secondo la quale Abramo e Ismaele furono i costruttori della Kaba, il sacro edificio a forma di cubo, che custodisce la Pietra Nera (forse un meteorite), idolo venerato come sacro (litolatria), non ha alcun fondamento storico, essendo uno dei miti fondativi dell’Islam. Gli antichi popoli supponevano che ogni astro fosse vivente e ne facevano oggetto di culto, adorando le pietre cadute dal cielo. Secondo la leggenda, la Pietra Nera (che in origine era bianca) fu data dall’arcangelo Gabriele ad Adamo (chi sa perché). La sacra “reliquia” fu poi trovata da Abramo presso la Mecca, dove era stata messa da Noè. Secondo una credenza, la pietra sarebbe diventata nera a causa dei peccati degli uomini. In realtà, fu ridotta in frammenti e annerita a causa del calore di un incendio scoppiato durante l’assedio della città santa nel 683.

Abramo, secondo la Bibbia (Gn 11,26), era figlio di Terach, non di Azar, come erroneamente indicato nel Corano (sura 6,74). La Bibbia (Gn 23,2; 35,27) riporta che Abramo visse nella terra di Canaan e nella città di Hebron, non in Arabia, come vuol far credere l’autore del Corano. Non ha adorato Allah nella valle della Mecca, né in quel luogo lo ha adorato Adamo, dopo esser stato cacciato dall’Eden. Non fu dunque il leggendario Abramo con suo figlio Ismaele ad aver edificato il tempio della Santa Casa, la Kaba, panteon dei beduini arabi (sure 14,37; 2,125 seg.). Il figlio che Abramo avrebbe dovuto sacrificare ad Allah non era il primogenito Ismaele (Gn 16,15), come erroneamente recita la sura 37,100-113, ma Isacco (Gn 21,2-3; 22,1 seg). Dopo la morte di Sara, Abramo sposò Chetura, da cui ebbe sei figli (Gn 24,25 seg), oltre i figli avuti dalle sue concubine (ma il Corano li ignora). Secondo il libro “Genesi” (6,10; 9,18-19), Noè generò tre figli, che seguirono il padre sull’arca per sfuggire al diluvio. Il Corano, invece, nel descrivere la storia di Noè, parla di uno dei suoi figli (uno dei tre o un quarto figlio?), miscredente, che rifiuta di salire sull’arca, annegando durante il diluvio. In una delle storie leggendarie su Mosè (il mitico profeta egiziano, legislatore e condottiero, che di un gruppo di emarginati fece un popolo, cui diede una religione monoteistica), l’autore del Corano afferma che fu un Samaritano (Samiri) a istigare il popolo, durante l’assenza di Mosè, affinché adorasse il “vitello d’oro”, di cui fu l’artefice (sura 20, 85-88). La Samaria, fondata nell’800 ante era volgare, non esisteva ai tempi in cui Mosè avrebbe compiuto le sue gesta (intorno al 1200 a. e. v.). Né appare confacente l’interpretazione secondo la quale si tratterebbe di un antenato eponimo dei Samaritani. In un altro racconto su Mosè (sura 7,124) e in quello su Giuseppe (sura 12,41), il Corano accenna alla pena della crocifissione, che è storicamente inattendibile, non essendo praticata all’epoca in cui si riferirebbero le due suddette storie. La Bibbia (Gn 40,18-19), invece, narrando la storia di Giuseppe, attesta la pratica della decapitazione o dell’impiccagione, non della crocifissione. Mosè, come erroneamente recita la sura 28,8-9, sarebbe stato adottato dalla moglie del Faraone, anziché da sua figlia, come invece riporta la Bibbia (Es 2,5-10). Il Corano (sura 7,145) menziona i comandamenti che Allah scrisse sulle Tavole per Mosè e il suo popolo; però, tra gli ammonimenti e i divieti prescritti, ignora i peccati riguardanti la concupiscenza (sura 6,151-152). Anzi, ai maschi meritevoli, che lottano sul sentiero di Allah, egli promette eterna vita in un afrodisiaco Paradiso, dove potranno sollazzarsi, sdraiati su comodi divani, godendo passionali amplessi con avvenenti vergini fanciulle dai grandi occhi neri (sure 44,54; 52,19-20; 55,46-78; 56,8-40; 78,31-34). Oltre ai piaceri sessuali, potranno gustare cibi squisiti e sorseggiare prelibate bevande, serviti da seducenti giovinetti (sure 52,24; 56,17; 76,19). Allah non si pronuncia riguardo al godimento che nel paese extragalattico di cuccagna offrirà alle credenti meritevoli (forse anche loro potranno godere di giovani e prestanti amatori). Il lussurioso e lussureggiante bengodi, promesso da Allah ai musulmani nell’aldilà, è completamente diverso dal Paradiso concepito dai cristiani, giacché l’uno rimarca nient’altro che il proseguimento dei piaceri sensuali della vita reale, l’altro prospetta unicamente piaceri spirituali. I cristiani meritevoli della Grazia, infatti, risorgeranno nell’aldilà in anima e corpo, ma potranno soltanto gustare i frutti dell’albero donante la vita eterna, beandosi, quale unico spirituale godimento, della contemplazione di Dio, uno e trino.

Maria, madre di Gesù, è indicata nel Corano (sure 19,28; 66,12; 3,33-36) come sorella di Aronne e figlia di Imran (cioè Amram), essendo stata partorita dalla moglie di Imran (cioè Amram). Appare evidente che l’autore del Corano confonde la madre di Gesù con la profetessa Miriam (Maria), sorella di Mosè e di Aronne, figli del biblico Amram (cfr. Nm 26,58-59; 12,1 seg; Es 15,20). Ne consegue che, escludendo che l’errore possa averlo commesso Allah, esso sarebbe da attribuire o a Maometto (ma ciò significherebbe ammettere che Egli non è infallibile) o ai redattori del Corano (ma ciò metterebbe in dubbio l’autenticità del sacro Libro). Né appaiono condivisibili talune interpretazioni: che “sorella di Aronne” sia da intendere “discendente di Aronne”; o che il nonno materno di Gesù si chiamasse Imran; o che Maria, madre di Gesù, avesse un fratello di nome Aronne. L’affermazione contenuta nel Corano (sura 19, 23), che Maria avrebbe dato alla luce il figlio Gesù sotto una palma, non corrisponde al luogo indicato nei Vangeli.

L’autore del Corano sostiene che gli ebrei non credono che Gesù sia un inviato di Dio, un profeta, perciò hanno calunniato Maria, sua madre, (nella tradizione rabbinica, Maria è stata accusata di essere stata sedotta da un soldato romano di nome Panthera, dal quale ha avuto il figlio illegittimo Gesù; cfr. “Toledoth Yeschuah”, “Concepimento di Gesù”). Nega altresì che gli ebrei abbiano crocefisso Gesù, uccidendolo, perché al suo posto fu mostrato loro uno somigliante. Gesù, infatti, fu assunto vivo in cielo presso Allah (sura 4,156-159). Questa leggenda musulmana ricalca quella degli eretici cristiani, docetisti e gnostici, da cui si differenzia nel credere che la morte di Gesù avverrà dopo il suo ritorno sulla terra per annunciare il Giudizio Universale (sura 43,61). Tale credenza, però, è in contraddizione con quanto recitano le sure 19,15.33 e 3,55, ossia che Gesù muore prima che Allah lo innalzi a sé, suscitandolo a vita. L’autore del Corano nega anche le credenze cristiane relative alla Trinità, alla trasmissione della colpa originale a tutto il genere umano, alla redenzione mediante l’incarnazione di Dio nell’uomo Gesù, il Cristo. Nella sura 9,30 si afferma che i giudei dicono che Esdra è figlio di Allah e i nazareni dicono che il Messia è figlio di Allah (associare a Dio un altro essere divino è il peccato più grave per i musulmani). In verità, nell’ebraismo Esdra non è stato mai divinizzato, a differenza di Gesù, il Cristo, divinizzato dai suoi epigoni. Nella sura 7,157 si dichiara espressamente che il profeta Maometto (il Glorificato) è stato annunciato agli ebrei nella Bibbia e ai cristiani nei Vangeli. Lo stesso Gesù avrebbe annunciato ai figli d’Israele la venuta di Maometto (sura 61,6). Vero è che la Bibbia annuncia l’arrivo di un Messia ebreo (ma nella discendenza di Isacco e Giacobbe - come recita anche la sura 29,27 - non di Ismaele) e afferma che sarà simile a Mosè (Dt 18,15-18). Il cristianesimo, invece, pur accogliendo la profezia messianica del giudaismo, ritiene che essa abbia avuto compimento in Gesù (At 3,17-24; 7,37; Mt 1,22-23; Gv 5,46-47), anche se Gesù non è stato un condottiero come Mosè. Vero è che Gesù (Gv 14,16-17.26; 15,26; 16,7.13-15; 7,37-39) annuncia agli apostoli la venuta del “Paracleto” (epiteto dello Spirito Santo, il Consolatore), che procede dal Padre. Il Paracleto, però, non è un uomo, bensì è un puro Spirito che discese sui discepoli nel giorno della Pentecoste (cinquanta giorni dopo la risurrezione di Gesù; cfr. At 2,1 seg). Nella Bibbia, dunque, ancorché si annunci la venuta di un Messia, questi non è Maometto.

La sura 18, 83-98 rappresenta “Quello dalle due Corna” (Alessandro Magno, in possesso della doppia visione, fisica e metafisica, vincitore delle orde malefiche di Gog e Magog), che, secondo una leggenda, Dio gli fece crescere sulla testa per abbattere gli imperi del mondo. E’ considerato un uomo giusto, guidato e assistito da Allah durante le sue imprese e da Lui reso potente sulla terra, facilitandolo nella realizzazione dei suoi desideri. Quando Alessandro raggiunge l’estremo Occidente - narra il Corano - vede il sole tramontare in una sorgente ribollente e un popolo nei pressi. Allah lo esorta a punire o trattare con benevolenza quel popolo. Il Bicorno risponde assicurandolo che punirà gli iniqui, prima di restituirli a Lui per il doloroso perpetuo castigo, mentre premierà i credenti che operano il bene. Alessandro poi prosegue verso un luogo in cui il sole sorge su un popolo sprovvisto di qualche riparo. E del Bicorne il Corano continua il leggendario racconto delle sue imprese vittoriose con l’aiuto di Allah. In realtà, la figura storica di Alessandro è completamente diversa da quella leggendaria che emerge dai versi del Corano.

Secondo il Corano, se un uomo muore e lascia più di due figlie femmine, a loro spetta 2/3 dell’eredità; se oltre le figlie lascia i due genitori, ciascuno di loro avrà diritto a 1/6 dell’eredità; se lascia anche due mogli, a loro spetta 1/8 dell’eredità (sura 4,11-12). E’ evidente che, nel caso di specie, la ripartizione dell’eredità non sarebbe possibile, perché: 2/3+2(1/6)+1/8 = 2/3+1/3+1/8 = 9/8, cioè si avrebbe un valore di ripartizione (9) superiore a quello dell’eredità da spartire (8). Non è dunque possibile seguire alla lettera il comando di Allah, recitato da Maometto.

Qual è la prova che il Corano sia autentico, di provenienza divina, immune di discontinuità grammaticali e logiche? Che sia immune di barbarismi (sura 41,44), nonostante la presenza di vocaboli stranieri? Che sia scritto in lingua araba pura (sura 16,103)? Che sia esente da manomissioni? Non c'è alcuna prova concreta.

Allah per farsi comprendere dai beduini ha parlato la lingua dei nomadi (cfr. sure 12,2; 13,37; 14,4; 26,192-195; 39,28; 42,7; 43,3; 46,12), esprimendosi nella flessione dialettale parlata alla Mecca da Maometto (cioè la lingua coraiscita primitiva, non facilmente accessibile anche agli esperti, dunque non comprensibile anche ai musulmani di lingua araba). Ha recitato il Corano a Maometto in prosa ritmata e in brevi versi nell’arco di circa 23 anni, forse per facilitarne la memorizzazione. L’arte poetica, l’eleganza linguistica, la persuasione retorica, sono elementi estetici di uno scritto, ma non costituiscono prove né della sua veridicità né tantomeno della sua provenienza divina. Assurdo è credere che il Corano sia un miracolo, un sacramento, un Libro intoccabile dagli infedeli e dagli impuri (sura 56,75-79), pena la loro morte. Il Corano, al pari di altri testi sacri, è un prodotto umano e come tale presenta pregi e difetti di un qualsiasi manufatto, perciò deve essere considerato come un testo storico, verosimilmente manipolato dalle autorità politiche e religiose per servire interessi di parte. Se la missione di Maometto, sigillo dei profeti (sura 33,40), è universale (sura 34,28), perché il Corano, rivelato nella lingua parlata da Maometto, sarebbe intraducibile, ancorché comprensibile (se lo sia) solamente agli arabi? Se Allah, per farsi comprendere, si è espresso in arabo, perché considerare le traduzioni pratiche peccaminose, quantunque fatte da persone competenti e oneste? Il Corano sarebbe intraducibile perché, secondo i musulmani, è un testo sacro, perciò inimitabile (sure 17,88 e10,38). Dunque, l’arabo parlato da Allah è un linguaggio comprensibile solo agli arabi, perciò inesprimibile in altre lingue. Allah però si è espresso anche in altre lingue: quelle dei popoli ai quali ha inviato i suoi messaggeri. Il suo “verbo” non può avere differenti significati se trasportato dall’una all’altra lingua, altrimenti le rivelazioni di Allah ai popoli della terra sarebbero, oltre che sacre e inimitabili, differenti le une dalle altre. Ciò però metterebbe in dubbio l’esistenza di un unico Dio. Si dice anche che il Corano è di per sé intraducibile, perché snaturerebbe l’ineffabile parola divina, anche con una traslazione rigorosamente letterale. In verità, ciò che si perderebbe con le traduzioni è l’unità linguistica della comunità islamica, oltre che l’estetismo retorico della sua prosa ritmata, ma non il senso spirituale (e ideologico) del Messaggio. La forma di uno scritto religioso non può assumere importanza più del suo contenuto. Forse che Allah per dimostrare la provenienza divina del Corano ha bisogno di esprimersi come un “ciceronianus” o come un vate? Vero è che tradurre una lingua in un’altra significa interpretarne il senso, ma anche leggere un testo scritto nella propria lingua madre è pur sempre un’interpretazione. Persino il Corano è un’interpretazione del mondo al tempo di Maometto proposta dal suo autore. Se il linguaggio coranico fosse chiarissimo, non vi sarebbero scuole interpretative nell’Islam, né vi sarebbero divisioni e sette (numerose). Se la parola di Allah è unica e immutabile ed è stata trasmessa a tutti i popoli dai suoi numerosi messaggeri, perché nel mondo vi sono tante e discordanti fedi religiose e differenti interpretazioni nell’ambito di ogni religione? Forse perché Allah non ha voluto dare agli uomini un’unica verità, ma a ciascun popolo ha dato una propria via da seguire? Se Allah volesse oggi parlare agli uomini, rivelerebbe una verità adeguata alla realtà socioculturale dei nostri tempi, anzi dei diversi tempi storico-culturali di ciascun popolo. Probabilmente, ai musulmani non rivelerebbe nulla di più rispetto a quanto già dettato a Maometto, poiché la civiltà islamica appare immutata, giacché ancorata a prescrizioni anacronistiche e alla presunzione che il Corano, venerato come autentico testo sacro (dogma fondamentale dell’Islam), intoccabile da mani impure, essendo considerato un attributo di Allah, un archetipo divino (sure 3,7; 13,39; 43,4; 85,21-22; ecc.), non può essere messo in discussione mediante analisi storico-critiche.

La presunta inimitabilità del Corano (considerato un miracolo) non è una prova della sua origine divina. Vediamo perché. L’autore sostiene che né uomini né demoni possono produrre qualcosa di simile al testo coranico (sura 17,88), perciò sfida oppositori e detrattori a portare dieci capitoli o uno solo o un discorso simile a esso, se ne sono capaci (sure 10,38; 11,13; 52,33-34). Nessuno scritto umano sarebbe perfetto come il Corano per stile, eloquenza linguistica, assenza di contraddizioni (sure 4,82; 16,103), coesione delle idee, spiritualità, e altre supposte caratteristiche, come, ad esempio, la sua conformità con la scienza moderna (sure 21,30; 23,12-14; 27,88; 41,52-53; ecc.) e la sua conoscenza del tempo passato (sura 11,49) e di quello futuro (sure 30,2-4; 17,4-7), smentite però in altri versi del Corano (sure 6,50; 7,188). Del tutto irrilevanti ed erronei sono da considerare certe pretese di scientificità degli enunciati coranici. Quanto all’invito a competere con la sfida coranica, meglio non osare, se c’è cara la pelle. Si rischia di essere condannati a morte tramite una fatwa, cioè una sentenza di conformità alla dottrina islamica, che ha applicazione extraterritoriale, giacché esecutori della pena comminata sono i musulmani sparsi in tutto il mondo. Quanto a modelli di testi letterari inimitabili, fra i tanti della letteratura mondiale, esemplare è la “Commedia” di Dante Alighieri, che Boccaccio definì “divina”, non per essere stata dettata da Dio, ma per la grandezza del poema. Senza contare quanti presunti profeti, di tempi passati e presenti, pretendono di ricevere “divine, inimitabili rivelazioni” e di parlare direttamente con Dio o con altre soprannaturali creature.

La religione che Maometto e i suoi compagni hanno comunicato mediante il Corano ha una funzione privilegiata nella società islamica. Tutte le sure del Corano, anche se di esclusivo valore normativo, hanno significato religioso, perché credute di origine divina. Ne consegue che esse non soltanto sono ritenute superiori a qualunque legge umana, ma anche infallibili e di valore immutabile (inerranza e astoricità del sacro Libro); né sarebbero interpretabili, se non per significato letterale (inenarranza del sacro Libro), senza applicare alcun sforzo di comprensione che tenga conto della mutata realtà storica. Le sure e i versi che compongono il Corano sono stati redatti senza un nesso logico né seguendo l’ordine cronologico della presunta rivelazione, avvenuta di volta in volta nell’arco di circa 23 anni. Peraltro, il criterio generalmente adottato nella redazione del Corano dai successori del Profeta è stato quello di inserire prima le sure rivelate per ultimo (quelle del periodo medinese), che sono più lunghe, intolleranti, di carattere politico e con incitamenti alla violenza; poi quelle rivelate prima (durante il periodo meccano), che sono più brevi e in cui predomina spirito religioso e tolleranza. La legge islamica (Shari’ah), infatti, fa riferimento proprio alle sure medinesi, interpretandole alla lettera, soffocando la naturale evoluzione della società islamica. Le sure medinesi, giacché rivelate posteriormente, abrogano, secondo un’espressa disposizione coranica (sura 2,106), quelle rivelate prima, se discordanti: onnipotenza di Allah!

Che Maometto fosse illetterato (sura 7,157-158; 29,48), come sostiene la tradizione islamica allo scopo di avvalorare il miracolo del Corano, non è credibile. Il beduino Maometto, come altri abitanti del deserto, era un abile commerciante carovaniere, non un analfabeta, altrimenti non avrebbe potuto svolgere un lavoro che ha a che fare con numeri e contratti, né occupare un posto di responsabilità alle dipendenze di una ricca vedova, poi divenuta sua moglie. Che non fosse illetterato lo attestano molti hadith di Al-Bukhari. Né può essere considerato incolto delle Scritture giudaiche e cristiane, giacché il suo lavoro lo portava a contatto con popolazioni e sette di religione ebraica e cristiana. Dai rapporti occasionali con persone delle suddette comunità Maometto ebbe modo di attingere verbalmente notizie frammentarie sulle Sacre Scritture (cfr. sura 3,113-115). Il figlio adottivo Zayd, uno schiavo liberato, proveniva da una tribù convertita al cristianesimo. Inoltre, quando Maometto iniziò ad avere visioni, la moglie Kadigia chiese consiglio presso il cugino Waraqa, che conosceva le Scritture ebraiche e cristiane. Gran parte del contenuto del Corano, infatti, è improntato sulla Bibbia; ciò mette in dubbio la pretesa originalità del Libro (fermo restando l’abilità poetica dell’autore). L’Islam, in particolare, è debitore dell’ebraismo per quanto riguarda le pratiche di pulizia, circoncisione, digiuni, norme alimentari, sacrifici. Il Talmud è fonte di molti racconti coranici. Il personaggio più citato nel Corano è Mosè. Della tradizione cristiana, l’Islam è debitore di alcune storie e credenze dedotte perlopiù dai testi apocrifi. Nel Corano sono citati, tra l’altro, i profeti Giovanni, figlio di Zaccaria, e Gesù figlio di Maria. Lo scopo precipuo dell’Islam, sotto l’aspetto prettamente religioso, è la “fede di Abramo”, cioè il puro monoteismo, espresso nell’unico e autentico libro che recita la parola di Allah. Il Corano, ancorché ritenuto dai musulmani autentica parola di Allah, dal punto di vista razionale, è un testo letterario religioso di produzione umana, reso sacro per fede.

La perfezione del sublime Corano (la vanità dell’autore è tale da sfidare persino gli angeli a imitarne una sola pagina) si fonda sulla credenza di essere opera di Allah, dettata a Maometto durante l’ultimo ventennio della sua vita (sure 39, 23-28; 85,21-22). Il Corano, pur potendo essere recitato in sette (o più) modi diversi, sarebbe la copia autentica della matrice del Libro esistente in cielo (sura 13,39; 43,4 e altre analoghe), continuazione e completamento di precedenti rivelazioni, scese su ispirati profeti, dei quali i musulmani non fanno alcuna distinzione (sure 2,136; 3,3; 5,46). Ne consegue che tali precedenti rivelazioni non dovrebbero contraddirsi; invece, sono tra loro contrastanti e spesso inconciliabili. Lo stile del Corano è conciso, discontinuo, sentenzioso, inutilmente ripetitivo, con frequenti passaggi durante la narrazione dalla prima alla seconda e terza persona. Discutibili sono i giuramenti pronunciati da Allah, come nelle sure 75,1-2 e 90,1 (anche Jahvè giurava sul suo nome per avvalorare le sue promesse; cfr. Gn 22,16; Gesù, invece, è di contrario avviso riguardo ai giuramenti; cfr. Mt 5,34-36), Discutibili i versi pronunciati direttamente dagli angeli, come nelle sure 19,64; 37,164-166. Tutto ciò (e altro, come le promesse di premi goderecci ai musulmani maschi meritevoli e le minacce d’orripilanti e sadici castighi cui sarebbero destinati i miscredenti), oltre a rendere verosimile che il Corano è stato redatto da più mani, mette in dubbio la pretesa provenienza divina del Messaggio. La lettura del testo, quindi, risulta non facile né comprensibile, che lo si legga in arabo o in traduzione. Secondo gli islamisti, le vigenti Scritture ebraiche e cristiane sarebbero state falsificate, mentre le loro sarebbero autentiche, non solo perché corrisponderebbero alla versione originaria comunicata da Maometto e memorizzata dai suoi compagni (dalla memoria dei quali fu desunto e redatto l’attuale testo coranico, senza aver riguardo al tempo in cui ogni versetto fu rivelato), ma soprattutto perché ogni verso del Corano sarebbe diretta espressione di Allah recitata a Maometto. Nel caso in cui il Profeta, durante la ricezione della Rivelazione, avesse dimenticato un verso (cfr. sura 87,6-7), Allah gli avrebbe recitato uno migliore o uguale (sura 2,106), abrogando quello dimenticato. Eppure (onnipotenza di Allah!), nonostante che la nuova disposizione sostituisca sostanzialmente quella abrogata, le sue parole non subiscono alterazioni (sura 10,64). Per i versi memorizzati, ma poi dimenticati dai compagni del Profeta, Allah non si pronuncia. Il suo Verbo, in parte memorizzato, in parte sparso in frammenti di pergamene o altro materiale utilizzato per la trascrizione dai compagni del Profeta, fu raccolto e ordinato dopo la sua morte e trasmesso ai posteri come norma di vita definitiva e universale. Quanti versi sono andati persi, quanti arbitrariamente aggiunti, quanti modificati? Quanti Corani sono stati redatti e quanti distrutti? Chi lo sa. Certo è che il Corano è incompleto e che un testo comunemente accolto (textus receptus) e definitivo (ne varietur) non c’è mai stato. Allah, comunque, da allora non ha altro da dire agli uomini. Tutto lo scibile lo ha già recitato a Maometto. Non più sostituirà un versetto con un altro (sura 16,101), né più cancellerà quello che vuole (sura 13,39). Più nessuno potrà cambiare, nei secoli dei secoli, la sua perenne, immodificabile sacra parola (sura 6, 34.115).

Talune sure coraniche (2,121; 3,3-4; 4,163-165; 5,46-47; 6,89-90; 15,10; 16,43) sembrano escludere che la “gente del Libro”, cioè ebrei e cristiani, abbiano falsificato le loro Scritture. Allah, infatti, li elogia come veri credenti, purché non rinneghino il messaggio che Egli fece scendere su di loro (cioè la Bibbia e i Vangeli). Per giunta, Allah dice a Maometto che farebbe bene a consultare la “gente del Libro”, qualora avesse dubbi su ciò che ha fatto scendere su di lui (sure 3,113-114; 5,68; 10, 94; 16,43; 21,7). Qui sembra che si ammetta, come altri versi confermano (per es. cfr. sure 17,73-75; 40,55; 41,36; 47,19; 48,1-2; 80,1 seg), la fallibilità, oltre che la peccabilità del Profeta. Dunque, non sarebbe vero, come contraddittoriamente attestato in altri versi (cfr. sure 2,42.75.146.174; 3,71.78; 4,46; 5,13-14.41), che la “gente del Libro” avrebbe corrotto scientemente la Parola di Allah (o nascosta, falsificata, distorta, stravolta, storpiata, cambiandone il senso). Il verso 78 della sura 3, in particolare, pur imputando ad alcuni della “gente del Libro” una distorta interpretazione della Scrittura, implicitamente sembra confermare l’incorruttibilità dei testi biblici ebraici e cristiani.

Il Corano, parola di Allah, sarebbe esente da errori e contraddizioni (sura 4,82). Tale affermazione è contraddetta dalla teoria dell’abrogante e dell’abrogato (cfr. sure 2,106; 16,101), ossia dall’arbitrarietà con cui l’onnipotente Allah (o chi per Lui) abroga o modifica disposizioni già impartite, che sono in contrasto con l’enunciato del nuovo comandamento, ammettendo implicitamente l’imperfezione e la fallibilità della pretesa parola divina. Allah, quindi, a suo arbitrio, può fare ciò che vuole (sura 13,39 e altre): Egli è l’Onnipotente, perciò non è obbligato a motivare l’arbitrio delle sue decisioni. I giuristi musulmani, invece, discutono sulla possibilità o meno di applicare l’abrogazione ai versi contraddittori del Corano, salvo ammettere unanimemente la liceità dell’abrogazione delle altre religioni rispetto a quella da loro professata (sure 3,85; 7,158; 34,28), l’unica presunta vera. Quanto all’infallibilità e impeccabilità di Maometto (cfr. sura 53,2-4), si dubita che la sua vita, così come descritta dai suoi biografi ed esaltata dagli hadith della Tradizione, sia stata esente da peccati ed errori. Lo stesso Corano qualifica Maometto come “peccatore” (sure 40,55, 48,2; 47,19). Dante lo colloca (canto ventottesimo) tra i seminatori di scandalo e di scisma nella nona bolgia dell’ottavo cerchio del suo immaginario Inferno. Nell’affresco della chiesa di San Petronio a Bologna, Giovanni da Modena, influenzato dall’opera di Dante, lo raffigura all’Inferno come un vecchio, nudo e legato, seviziato da un demone.

Riguardo all’uso del vino, le disposizioni di Allah appaiono in contraddizione tra loro, come si rileva nelle seguenti sure. Il vino è bevanda inebriante e buon alimento (sura 16, 67). Il vino ha dei vantaggi salutari, ma induce anche al peccato; il peccato, però, è più grande del vantaggio (sura 2,219). Il musulmano non deve iniziare il rito della preghiera in stato di ebbrezza (sura 4,43). Il vino è sozzura, opera di Satana; egli vuole con il vino gettare inimicizia e odio tra i credenti (sura 5,90-91). Per i credenti meritevoli del Paradiso, vi saranno fiumi di vino delizioso da bere (sura 47,15), che non eccitano al peccato (sura 52,23). I pii saranno abbeverati di vino squisito, suggellato con muschio, molto bramato dagli uomini (sura 83, 25-26). Il vino, dunque, ancorché salutare, è proibito ai credenti, ma soltanto nell’aldiqua. Le interdizioni alimentari islamiche, simili a quelle prescritte dalla Bibbia (Gn 9,4; Lv 7,19-27; 17,10-14; Dt 12,16.23-24), sono abrogate nel Paradiso islamico. La macellazione rituale, che consiste nel completo dissanguamento dell’animale (una morte orribile), è espressamente prescritta nel Corano (sure 2,173; 5,3; 6,121.145; 16.115). In caso di necessità - recita il Corano (sura 5,5) - è lecito anche il cibo dei cristiani. La proibizione coranica dell’usura (sure 2,275-278; 3,130; 4,161; 30,39), condiziona lo sviluppo del sistema bancario islamico, perché inibisce qualsiasi forma di prestito a interesse (tuttavia, mediante l’applicazione di taluni espedienti, le banche islamiche possono aggirare il divieto, fermo restando il rispetto formale della norma coranica).

Le preghiere canoniche giornaliere, secondo le prescrizioni coraniche (cfr. sure: 2,238-239; 7,205; 11,114; 17,78-79; 20,130-132; 40,55; 50,39.40; 72,25-26; 73,20), dovrebbero essere tre, invece, secondo un uso invalso dalla tradizione, sono cinque. Il venerdì, dopo mezzogiorno, si svolge nella moschea la preghiera collettiva, guidata da un imam (sura 62,9-11). Il rito funebre e la sepoltura dei musulmani devono conformarsi alla tradizione islamica.

Nelle sure 2,136.285; 3,84, Allah afferma di non fare alcuna distinzione tra i profeti. Nelle sure 2,253; 17,55, invece, accorda preferenza a taluni profeti, avendoli resi superiori agli altri. Nel giorno del Giudizio, volti splendenti avranno come ricompensa la visione di Allah (sura 75, 22-23). Ciò però non sembra possibile, perché nessuno può vedere Allah, essendo invisibile (sura 6,103). Egli non parla in modo diretto agli uomini, ma solo per ispirazione, o dietro un velo, o inviando un messaggero (sura 42,51).

Se sconfitto durante una battaglia, Maometto conforta i suoi devoti compagni recitando versetti consolatori, ispirati al fatalismo: tutto è stato già predeterminato da Allah (sure 3,145.152; 9,51; 16,37; 17,13; 42,13; 57,22; 80,19), perciò l’uomo non può cambiare il suo destino. Allah, infatti, nega nettamente il libero arbitrio (sure 6,149; 7,128; 74,56; 76,30; 81,2), non essendo l’uomo creatore dei suoi atti (sure 25,2; 37,96; 39,62). L’ordine di Allah è decreto immutabile (sura 33,38). Il suo comportamento è ferma consuetudine (sure 33,62; 35,43; 48,23). Il suo arbitrio è sconvolgente (sure 6,83; 42,13). Allah non deve rendere conto di ciò che fa (sura 21,23). Tanto che, in piena contraddizione con se stesso, altrove afferma il libero arbitrio (sura 99,7-8 e altre analoghe).

Come Paolo di Tarso sognò di essere salito fino al terzo cielo (2 Co 12,2-5), così Maometto sognò di viaggiare, guidato dall’angelo Gabriele, dalla Mecca a Gerusalemme, in groppa a una prodigiosa alata cavalcatura. Da Gerusalemme sarebbe poi asceso fino al settimo cielo, incontrando in ciascun cielo i profeti che lo avevano preceduto, e arrivando infine a contemplare la visione di Allah, con cui ebbe il privilegio di colloquiare. Questa leggendaria visione, dettagliatamente narrata nelle opere della tradizione popolare (come il Libro della scala, da cui Dante avrebbe tratto ispirazione per la Divina Commedia), trova fondamento in alcuni passi del Corano, dove si accenna alla miracolosa (mistica) esperienza fatta da Maometto (sure 17,1.60; 53,1-18; 81,15-25). Il fenomeno onirico del volo e dell’ascensione potrebbe esser stato provocato da uno stato di trance, indotto da una prolungata meditazione in un luogo isolato. Maometto, infatti, colpito da una crisi mistica, usava ritirarsi in una grotta isolata per pregare. Nei suoi prolungati e meditabondi ritiri spirituali, Maometto avrebbe avuto visioni e fatte esperienze di tipo mistico, estatico, teopatico. Miracolose esperienze di volo si riscontrano anche in altri testi religiosi, come nell’Antico (Dn 13 seg) e nel Nuovo Testamento (Ascensione di Gesù), nell’apocrifo “Atti di Pietro”, nelle agiografie di santi e beati cristiani e negli atti processuali a carico di presunte streghe. Il tema del viaggio nell’aldilà è presente nella letteratura mitologica e religiosa di tutti i tempi. Nella Bibbia (Gn 28,10-22) si narra che Giacobbe sognò una scala sulla quale gli angeli scendevano dal cielo sulla terra e viceversa, mentre udiva la voce di Dio che gli confermava la sua protezione, la proprietà della terra promessa e una numerosa discendenza. Di altri presunti miracoli attribuiti a Maometto, il Corano riporta quello della spaccatura della luna (sura 54,1) e quello leggendario della purificazione del cuore di Maometto in età infantile (sura 94,1-3). In altre sure il Corano esclude che Maometto, semplice uomo mortale, possa fare miracoli come un taumaturgo (sure 6,124; 13,7.27; 17,59.90-93; 20,133; 30,58), né che abbia conosciuto l’Invisibile nell’aldilà (sure 6,50; 7,188; 10,20). 

Non c’e costrizione nella religione; perciò Allah comanda a Maometto che non deve costringere a credere chi non crede. Egli perciò deve liberamente lasciar credere chi vuole e negare chi vuole: a ognuno la sua religione (sure 2,256; 10,99; 18,29; 88,22; 109,6). In altri successivi versi, invece, Allah minaccia chi si separa da Lui e dal suo Messaggero, chi lo rinnega dopo aver creduto, chi accoglie in sé la miscredenza, chi critica l’Islam e il suo Profeta: su tutti costoro cadrà tremenda la sua collera e avranno terribili castighi (sure 8,13; 16,106; e altre). Altrove manifesta totale intolleranza contro i miscredenti (sure 2,190-191.216; 3,19-21.127; 4,89.91.150-151; 5,33.51.142; 8,38-39.67; 9,5.29; 17,15; 48,16). Il Corano, dunque, ammette e santifica l’odio, la violenza, l’umiliazione degli sconfitti, a riprova che non esiste l’islamismo moderato o laico, se non come eresia professata da una ristretta minoranza fuori dai paesi islamici. Una fede che predica odio e violenza contro chi è reputato nemico, solo perché non accetta la conversione a una fede religiosa cui non crede, non può essere definita propriamente “religione”, se per essa s’intende un’esperienza interiore del sacro e del trascendente.

Il martirio cristiano non è volontario, ma subito a causa della fede. Il martire cristiano è ucciso dai nemici e li perdona, a differenza del martire islamico, che, per la propria gloria e per la ricompensa che otterrà, lotta sul sentiero di Allah per uccidere i nemici che odia (sura 9,111). Non ci sarà afflizione nell’aldilà per quelli cui Allah concede il martirio (sura 3,169-170). Il terrorismo è connaturato all’Islam e santificato dal Corano per terrorizzare i nemici di Allah e del suo eletto Profeta, ossia tutti quelli che non abbracciano l’Islam. I miscredenti, recita il Corano, sono un manifesto nemico (sura 4,101), perciò vieta ai musulmani di allearsi con loro (sura 5,51; 60,4).

L’ideologia del multiculturalismo, giacché teorizza l’uguaglianza delle culture, che invece sono storicamente diverse, consentirebbe agli immigrati, in nome del relativismo culturale, di manifestare liberamente costumi, norme e valori della loro cultura (come burqa, poligamia, mutilazioni genitali femminili, uccisioni per onore, ecc.), anche se in contrasto con i valori culturali e le norme giuridiche del paese che li ospita. L’immigrazione musulmana potrebbe diventare nel tempo una pericolosa minaccia per l’integrità culturale e le libertà faticosamente conquistate dai paesi ospitanti, i cui regimi liberal-democratici si prestano al multiculturalismo. La cultura islamica è fondamentalmente intollerante, difficilmente integrabile, pericolosa per la pacifica convivenza sociale, giacché supportata da un’ideologia politico-religiosa totalitaria, irrispettosa dei fondamentali diritti umani. La democrazia implica tolleranza e pluralismo, ma non anche la tolleranza degli intolleranti, che minacciano e delinquono contro ordinamenti democratici. Gli imam, che dai loro pulpiti educano all’esaltazione dell’ideologia islamica e alla demonizzazione dell’Occidente, accusandolo di essere la causa di tutti i loro mali, sono responsabili dell’odio che i musulmani nutrono verso altri popoli e culture.

 L’Occidente non sottovaluti le grida di Cassandra!



Lucio Apulo Daunio



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