sabato 16 luglio 2011






I DIRITTI UMANI SECONDO L’AUTORE DEL CORANO

 "Rari e felici i tempi in cui è permesso di pensare ciò che si vuole, e di dire ciò che si pensa" (Tacito, Historiae, I,1)

LA CRITICA NON CONOSCE TESTI INFALLIBILI (Ernest Renan)



Quest’articolo non si occupa specificamente della legislazione, delle tradizioni e dei costumi in uso nei diversi paesi islamici. L’intento non è quello di criticare la buona fede religiosa dei musulmani, bensì esprimere opinioni e dubbi desunti da una libera analisi critica del Corano, letto in più traduzioni, che annullano l’effetto retorico del testo arabo scritto in prosa ritmata.



PARTE PRIMA


Nel nome di Allah, clemente e misericordioso:

“Questo è il libro in cui non ci sono dubbi, dato come guida per i timorati di Allah” (sura 2,2); ”è Guida Divina e Buona Novella per i credenti” (sura 2,97); ”è il Libro apportatore di verità, affinché tu (Maometto) giudichi fra gli uomini secondo quanto Allah ti ha mostrato” (sura 4,105); “è il Libro chiaro ed esplicito”, “una guida per la salvezza” (sura 5,15-16.);  “è il Libro della religione immutabile” (sura12,40); “è la Religione della Verità, perché prevalga sulle religioni tutte” (sura 9,33);  ”Nessuno può cambiare le parole di Allah” (sura 2,34);“Il potere appartiene ad Allah” (sura 6,57).

Dalle suddette sure e da altre simili, si evince che le genti di fede islamica non hanno il diritto di fare le leggi che vogliono, né di ricusare o modificare parole o espressioni (credute) dettate da Allah a un suo eletto Profeta nell’arco di circa ventitré anni (dal 610 al 632 e.v.). Il “verbo” normativo di Allah disciplina ogni aspetto della vita dei musulmani. Qualche tempo dopo la morte del Profeta, la presunta divina "parola normativa" fu trascritta nel Corano secondo un ordine diverso da quello cronologico della rivelazione. Il Libro, in quanto creduto opera di Allah, è fonte normativa primaria del diritto islamico. Allah, presunto legislatore, lo avrebbe recitato a Maometto, tramite l’angelo Gabriele. Il contenuto del Libro è ritenuto sacrosanto, perciò insindacabile, immodificabile, infallibile. E' verità perenne e universale. Il diritto positivo islamico, giacché fondato sul “verbo” divino, condiziona pesantemente il potere laico degli stati in cui predomina la religione islamica. L’Islam, in quanto è totale sottomissione del credente alla legge di Allah, è una fede politico-religiosa non riformabile, né rifiutabile una volta che sia stata accettata. Politici e giuristi islamici, giacché hanno una formazione prevalentemente religiosa, fondata sul presunto diritto divino, prerogativa esclusiva di Allah e del suo portavoce Maometto, ne restano condizionati nell’esercizio delle loro funzioni. Il potere legislativo dello stato islamico non può prescindere né essere difforme dalla legge divina, che, proprio perché tale, ha (e non può non avere) validità per chiunque, in ogni tempo e luogo. Persino l’ordinamento civile islamico, al pari di quello religioso, è ritenuto immodificabile, giacché anch’esso oggetto di rivelazione. La natura onnicomprensiva dell’Islam non fa distinzione tra rituale religioso, comportamenti personali e sociali, e norme etiche, politiche, giuridiche. L’ostinata convinzione islamica, che il Corano è l’indubitabile parola normativa di Allah, fattasi libro, verità assoluta e sacrosanta cui tutti devono ubbidienza nei secoli dei secoli con cieca fede, appare, a chi musulmano non è, una rinuncia alla razionalità, una succube dipendenza della ragione da una supposta volontà divina, legittimata da un retrogrado sistema politico-giuridico teocentrico di stampo medioevale.

Anche per i cristiani il Vangelo, “verbo” divino, è uno solo, sempre e ovunque lo stesso. Tuttavia, la “buona novella” rivelata dall’uomo-dio Gesù, come la raccontano gli evangelisti, appare diversa dai bellicosi propositi che abbondano nel Corano. Il Dio Trino dei cristiani, a differenza di Allah e del dio degli ebrei Jahvè, esplicita il suo “verbo” in propositi morali, miti, pacifisti (con qualche eccezione), opponendo alla violenza altrui il perdono e l’amore. Ciò stante, appare arduo intavolare un dialogo interreligioso tra cristiani e musulmani, se entrambi pretendono che la loro fede, l’una differente dall’altra, è l’unica vera. Le tre fedi monoteistiche sono sostanzialmente religioni della legge, fondate sul diritto divino, diverso l’uno dall’altro; perciò ciascuna fede si ritiene vera e superiore a tutte le altre, che accusa di falsità, delegittimandole come non autentiche. Gli islamici radicali, in particolare, esigono che ovunque si professi la loro religione, giacché presumono la completezza e l’autosufficienza della loro cultura, arrogandosi d’essere il miglior popolo tra tutti gli altri sorti sulla faccia della terra (sura 3,110). Del tutto impossibile è dialogare con costoro, che in nome e per il trionfo dell’islamismo sono disposti al martirio, a scapito di altre vite, nonché alla pratica barbarica della guerriglia. Lo stato islamico fondamentalista, infatti, mira alla totale sottomissione degli infedeli alla disciplina della (supposta) legge divina (rigorosissima in materia di diritto delle persone). Gli islamisti, però, devono convincersi dell’assurdità della loro pretesa d’imporre al mondo intero le loro anacronistiche credenze, il loro stile di vita, i loro valori normativi, le loro consuetudini legittimate da un sistema politico totalitario e religioso teocentrico. Dovrebbero invece considerare, da un punto di vista razionale, che non esiste alcuna prova inconfutabile dell’esistenza di Allah e di altri enti soprannaturali. Non si può perciò obbligare il mondo intero a credere, per fede, che Maometto, durante una crisi mistica, abbia ricevuto in estasi, sotto dettatura di un angelo, leggi divine inderogabili e universali, di natura superiore alle norme civili, da imporre a tutti gli uomini in ogni tempo e luogo (cfr. sure 4,59; 33,36; 42,10; 64,12, ecc.). La sola fede non può dare garanzie circa l’affidabilità di una credenza religiosa, non essendo questa accertabile, perché non può essere oggetto di verifica empirica. La fede religiosa, dunque, non può dare certezze, ma solo speranze per chi voglia credere in una realtà supposta oltre l’evidenza del reale. Molti sono coloro che ritengono che la ragione critica e il libero pensiero valgono più di qualsiasi credo religioso e di qualsiasi concezione sacrale, opprimente la libertà umana, per sottometterla al dominio di una sedicente entità trascendente, presunta ispiratrice di glorificati profeti legislatori.

I musulmani affermano che nel Corano sono indicati, oltre i doveri, anche i diritti fondamentali dell’uomo e le norme necessarie per garantire il retto ordinamento della società. Le norme coraniche sono state codificate nella Shari’ah, la legge sacra che caratterizza la cultura islamica. Non c’è giustizia - sostengono i musulmani - fuori del diritto divino. Da ciò discende per essi non solo l’obbligo di osservanza delle norme giuridico - religiose, ma anche la pretesa dell’altrui osservanza. I musulmani rifiutano ogni principio laico che sia in contrasto con la legge di Allah, desunta dal testo coranico, secondo l’interpretazione elaborata dalle scuole teologiche. I principi espressi nella Dichiarazione universale dei diritti inviolabili e inalienabili dell’uomo, proclamata dalle Nazioni Unite, sul presupposto di diritti naturali meritevoli di tutela erga omnes, fondamento del moderno stato di diritto, non sono accettati dall’Islam, se difformi dal Corano. I diritti umani, codificati come diritti positivi dagli stati islamici, sono quelli indicati nel Libro di Allah. L’Islam, dunque, appare incompatibile con i valori della laicità, che escludono l’ingerenza del potere religioso nell’esercizio di quello politico-amministrativo e di quello del pubblico insegnamento, nonostante gli appelli di taluni riformatori musulmani volti a separare i due ambiti, a distinguere la sfera pubblica da quella privata, a liberarsi da una cultura teocentrica, autoritaria e anacronistica, ostacolo allo sviluppo sociale dei paesi islamici. L’ammodernamento dell’Islam non potrà essere disgiunto dall’impegno per una costante, critica ricerca della conoscenza (intesa in senso ampio, che comporti anche una critica reinterpretazione del Corano e della Tradizione), dovere inderogabile non solo per ogni musulmano, ma per tutti gli uomini di buon senso. Il culto ossessivo dei musulmani per la loro tradizione religiosa, ostacola l’avanzamento del sapere, la libertà di pensiero, l’affinamento dello spirito critico, il confronto democratico delle idee, la libera circolazione della cultura tra i paesi del mondo. L’Islam radicale, prigioniero di un’atavica concezione medievale, rifiuta la moderna concezione di vita né accetta la differenza e la diversità culturale. Santifica il terrorismo, il martirio, la violenza, l’odio, il culto della morte. Questo Islam barbarico è tradimento nei confronti dei riformatori islamici, che non rinunciano all’uso della ragione, respingendo, a rischio della propria vita, l’irrazionalismo oppressivo e dogmatico della loro cultura. Ed è tradimento anche nei confronti dell’umanità, che non rinuncia alla speranza di una libera e pacifica coesistenza tra le diverse culture del mondo.




PARTE SECONDA


Il profeta e legislatore Maometto, secondo un punto di vista razionale, non fideistico, per far accettare le sue mistiche credenze e opinioni politiche agli arabi, si è giustificato asserendo che erano comandamenti di Allah, a lui rivelati in età matura (sura 10,16) tramite l’angelo Gabriele (sura 2,97). Allo stesso modo si è giustificato Mosè, quando impose i dieci comandamenti agli schiavi ebrei, che avevano assieme a lui lasciato l’Egitto per raggiungere la terra promessa da Jahvè, il dio dei loro padri. Tutto ciò che Jahvè ordinava, gli ebrei dovevano pedissequamente osservare e praticare. Ai decreti divini nulla dovevano aggiungere o detrarre (cfr. Dt 13,1). Ogni parola (disposizione di legge) rivelata da Jahvè doveva essere messa in pratica senza esclusione alcuna (Dt 29,28). La legge di Jahvè era eterna e valida in ogni luogo e per tutte le generazioni (cfr. Lv 13,14). Questa legge divina contemplava la violenza e la guerra santa di sterminio (Es. 17,13-16; 34,10-14; Nm 21,33-35; Dt 25,19; 29,1-7). Mettere in discussione la (pretesa) genuinità del messaggio profetico era segno di trasgressione, passibile di punizione. Anche Gesù, il Cristo, ha giustificato il suo Vangelo, la “buona novella”, come volontà espressa dal Padre celeste per riscattare l’umanità da una colpa originaria. I suoi valori normativi, però, appaiono opposti a molti tra quelli indicati nella Bibbia ebraica e nel Corano, essendo fondati sull’ideale della non-violenza (come il principio morale di non ricambiare il male con il male; principio già enunciato da Platone nel “Critone”). I tre suddetti profeti legislatori, inventori di un fantastico mondo nell’aldilà per i loro meritevoli fedeli, si sono auto-legittimati come portatori, per divina elezione, di un messaggio rivelato da una somma entità soprannaturale (cui scaricare, in parte, le loro responsabilità). Questo supposta divina entità avrebbe recitato o ispirato a eletti profeti le norme di comportamento da osservare nell’agire degli uomini, specificando ciò che sarebbe o non sarebbe lecito (con significative differenze tra le une e le altre fedi religiose monoteistiche, tanto da far dubitare che si tratti della stessa divinità). Tali norme, giacché credute di origine divina, si assumono come valori perenni, immodificabili, indiscutibili, non invalidabili. Richiamandosi all’autorità divina ispiratrice, i tre ambiziosi profeti di una perniciosa fede monoteistica (come la loro storia e quella dei loro epigoni documenta), hanno avallato le loro pretese, attribuendo a esse forza vincolante, e hanno intimorito chi rifiutava loro obbedienza, insinuando la paura di tremendi castighi, sia quelli tangibili nell’aldiquà, sia quelli ipotetici nell’aldilà. I dettami religiosi, inculcati nella mente sin dalla più tenera età in forza del sistema educativo e dell’abitudine a conformarsi ai costumi dell’ambiente sociale in cui si vive, finiscono poi con l’essere accettati e interiorizzati come norme dogmatiche, inderogabili, la cui trasgressione è passibile di sanzione, in questo e nell’altro mondo.

Il verbo di Allah, sceso su Maometto (o che Maometto ha voluto così far credere per imporre il suo punto di vista religioso-politico e per dar concretezza alle sue passioni), qualche tempo dopo la sua morte è stato raccolto dalla memoria dei suoi compagni e trascritto nel Corano (considerato dai musulmani un attributo divino, un codice sacro esistente ab aeterno presso il Trono di Allah). Il sacro Libro, assieme alla Tradizione (la Sunnah, che comprende la Sira, cioè la vita esemplare del Profeta, e gli hadith, cioè gli atti e i comportamenti attribuiti al Profeta o ai suoi compagni), cui si aggiungono l’accordo unanime dei giureconsulti (igma) e il ragionamento per analogia (qiyas), costituiscono i principi normativi (Shari’ah) che disciplinano gli aspetti morali, civili e penali della comunità islamica (ummah) in ogni sua manifestazione. La Shari’ah, in particolare, orienta sia la produzione di norme giuridiche (il fiqh) sia l’elaborazione del diritto da applicare ai casi concreti (lo ijtihad). Il Corano (in quanto raccolta di precetti) e la Sunnah (raccolta di hadith) sono considerati testi giuridici, fonti primarie del diritto islamico. La cultura giuridico - politica dell’Islam, giacché strettamente legata alla religione, è rimasta sostanzialmente bloccata alla dottrina elaborata dalle scuole medievali di diritto. Nella mentalità dei musulmani (i sottomessi totalmente alla legge di Allah), non c’è differenza tra morale e diritto positivo. Recita il Corano (sura 5,44-47) che i miscredenti sono ingiusti e iniqui, perché non giudicano secondo quello che Allah ha fatto scendere su Maometto, ma cambiano ciò che Allah ha statuito. I decreti di Allah hanno assoluta preminenza su qualsiasi disposizione di legge umana (sura 33,36). In altri termini, nessun credente può liberamente mettere in dubbio ciò che Allah e Maometto (primo a sottomettersi, cfr. sura 6,14) hanno stabilito in via definitiva e, volenti o nolenti, per tutti gli uomini fino alla fine del mondo. Il musulmano, in primis, deve ascoltare e obbedire remissivamente (sure 3,32; 24,46-54) alla volontà di Allah (Corano) e conformarsi ai comportamenti (Sunnah) del suo infallibile Messaggero, nobile esempio e modello di vita per i credenti (sura 33,21); in subordine, deve ubbidire all’autorità, purché essa governi in conformità ai principi della religione (sura 4,59). La forza dell’Islam, dunque, consiste nell’incondizionata accettazione della fede e nella remissiva sottomissione ad Allah (piuttosto che nella carità, come nel cristianesimo, o nella speranza messianica, come nell’ebraismo). Il Corano contiene (cioè presume di contenere) tutto ciò che è necessario alla conoscenza umana, essendo stato rivelato con la scienza di Allah (sure 4,166; 11,14). In esso nulla è stato omesso. Di conseguenza, tutto ciò che non è contenuto nel Corano, non è rilevante né utile per i bisogni dell’uomo. I problemi umani di ogni tempo, secondo i musulmani, possono trovare la soluzione mediante la puntuale applicazione della sempiterna legge di Allah (anche se anacronistica, giacché risalente a millequattrocento anni fa), senza che occorra alcuna discussione per dirimere le divergenze. Il credente che rifiuta la legge divina, o ne propone una libera interpretazione, è reo di apostasia, crimine passibile di punizione capitale. Il musulmano non ha libertà di coscienza, di parola, di opinione, di manifestazione del pensiero; non può scegliere un diritto in contrasto con la legge divina, né può cambiare il suo stile di vita, se non è conforme a quello legiferato da Allah e dal suo Profeta (che, essendo vissuto nel VII secolo, riflette la mentalità, i costumi e le conoscenze di un tempo passato). La religione islamica (dei servi di Allah) esclude ogni domanda ostile (sure 2,108; 5,101) e non contempla il dubbio. E’ una fede ammantata di (pseudo) assoluta certezza nell’autenticità del “verbo” rivelato da Allah a Maometto. Il musulmano (servo di Allah) non accetta che si professi una religione diversa dall’Islam (sura 3,85). Allah stesso non ha remore nell’ordinare ai musulmani di combattere senza tregua e massacrare chi rifiuta la sua religione e semina la corruzione (sura 5.33). Comanda persino di non fare prigionieri (Lui è responsabile dello sterminio degli infedeli) fino a quando il culto sarà tutto rivolto a Lui e la terra sarà tutta soggiogata all’Islam (sura 8,12-18.39.67). Esorta i combattenti a non essere deboli e a non offrire la pace al nemico, mentre hanno il sopravvento (sura 47,35). La misericordia del Compassionevole si manifesta esclusivamente nei confronti dei musulmani, suoi servi obbedienti. Le sue incisive parole contro i miscredenti non lasciano dubbio alcuno: uccideteli, crocifiggeteli, tagliate mani e gambe da lati opposti, fateli a pezzi, umiliateli! La responsabilità della carneficina è interamente di Allah (sura 8,17), che darà sulla terra e in cielo ricompensa immensa ai combattenti per la sua causa (sura 4,74), assicurando loro la vittoria mediante l’ausilio d’invisibili angeli guerrieri (sura 3,125). Così i beduini musulmani, guidati dall’implacabile condottiero Maometto, non hanno avuto scrupoli, durante la guerra santa di conquista dei paesi limitrofi, a uccidere cristiani, ebrei, zoroastriani, induisti, buddisti, obbligando gli infedeli superstiti a una forzata conversione e la “gente del Libro” a vivere soggiogati, nella condizione di dhimmi (cioè discriminati finanziariamente, giuridicamente, politicamente, socialmente). L’astuzia, la dissimulazione, la menzogna, la riserva mentale, l’occultamento d’intenzione malevola (taqiyya o kitman) sono considerati doveri religiosi utili per combattere gli infedeli, confondendoli. Allah stesso si qualifica come il più grande astuto (sure 3,54; 4,142; 8,30; 86,15-16). Nulla si rileva più utile dell’inganno nella lotta sul sentiero di Allah. Anche presso gli ebrei, quando erano in pericolo all’estero, si giustificava l’uso della menzogna. Isacco, ospite del re dei Filistei, seguendo l’esempio di Abramo (Gn 12,10-20; 20,1-18), dichiarò che la moglie Rebecca era sua sorella. Egli temeva che lo uccidessero a causa dell’aspetto avvenente della moglie (Gn 26,1-17).

Da quanto sopra esposto, è chiaro che nell’ambito dell’Islam i diritti umani non possono essere difformi dalla Shari’ah, le norme invalidabili, immodificabili, imprescrittibili, eterne, sancite una volta per tutte dal (supposto) legislatore divino. Ne consegue che l’Islam, restando fermo a usi e costumi di un remoto passato, idealizzato e sacralizzato, si caratterizza come società chiusa, intollerante, non pluralista, in conflitto ideologico con la moderna concezione della vita. L’Islam non può mutare, evolvendosi verso la modernità, senza tradire (così pare ai musulmani) principi e riferimenti ideologici di un passato in cui continua ostinatamente a identificarsi. L’Islam tradizionale, in quanto ideologia politico-religiosa totalitaria, assimilabile per molti aspetti al fascismo, rappresenta una seria minaccia per gli stati a governo democratico. Rilevante è il contrasto (soprattutto in materia di tutela delle donne e di chi non è musulmano) tra la legge islamica e la moderna concezione filosofico - politica dei diritti dell’uomo. Tra i peggiori stati trasgressori dei diritti umani si annoverano taluni paesi islamici, esportatori di terroristi, come l’Iran, l’Arabia Saudita, il Sudan e l’ex Afghanistan governato dai Talebani (i sanguinari studenti delle scuole coraniche, che disprezzano la ragione ed esaltando una fede che trascende la legge morale). Qualunque fede religiosa, che non tutela i fondamentali diritti umani, non è degna di rispetto. La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, adottata dall’ONU, ha il pregio di non contemplare alcuna menzione riguardo a Dio o a leggi emanate da Dio. Se nella teocrazia islamica vige il concetto che supremo legislatore è Allah, nei governi laici vige il principio della sovranità popolare, che elegge i suoi rappresentanti, deputati a emanare le leggi regolatrici degli interessi pubblici e privati, suscettibili di variazione secondo criteri e valori designati dalla maggioranza dei cittadini elettori. Nei paesi c.d. “occidentali”, dunque, la legge è determinata con metodo democratico dalla volontà popolare, anche se, in certa misura, influenzabile da concezioni etico - religiose. Nei paesi come l’Italia, anche se non è netta la separazione tra Chiesa e Stato, è sempre esistita la distinzione tra il potere spirituale-clericale e il potere temporale-secolare. Del resto, il legislatore moralista Gesù, come attestano i Vangeli, è stato a suo modo un pacifista, non un condottiero politico come Mosè o come Maometto. Egli, infatti, come si racconta nei Vangeli, ha chiaramente distinto l’ambito tra i due poteri: quello religioso e quello politico (cfr. Mt 22,21). Ha portato agli uomini la “buona novella” del Regno di Dio, che apre loro le porte del Regno dei cieli. Il Corano, invece, non distingue l’ambito spirituale dal temporale e si rivela avulso e inadatto a soddisfare le mutate esigenze della spiritualità laica del nostro tempo, poiché riflette sentimenti e aspirazioni concernenti circostanze e bisogni propri dei luoghi e del tempo in cui è vissuto Maometto. Da allora, infatti, la società umana è mutata nella coscienza, nelle idee, nei sentimenti, nei bisogni, nei costumi e soprattutto nelle istituzioni, ignote ai popoli musulmani. L’Occidente (da non identificare con il cristianesimo), a differenza dell’Islam, si è profondamente trasformato e rinnovato, dopo il lungo periodo medievale, essendo stato pervaso da complessi fenomeni culturali, quali:
- Umanesimo (ricordiamo, fra i tanti suoi rappresentanti, Pico della Mirandola con il “De hominis dignitate”);
- Rinascimento (che ripropone, con la locuzione “homo faber fortunae suae”, l’antica visione dell’uomo artefice del proprio destino, e, con Machiavelli, la difesa dell’autonomia della politica dalla morale e dalla religione);
- Rivoluzione scientifica (con l’antesignano Galileo Galilei, fautore dell’autonomia del metodo scientifico-sperimentale);
- Illuminismo (iniziando da Grozio, fautore dell’autonomia del diritto).

Oltre questi fenomeni, che hanno segnato un’epoca di progresso, altri movimenti culturali hanno contribuito a un radicale rinnovamento delle coscienze e all’insorgenza di nuove esigenze.

L’islam, invece, deve ancora trovare un Lorenzo Valla, l’umanista laico iniziatore degli studi di critica storica e filologica, e un Baruch Spinoza, il razionalista antesignano dell’illuminismo e della moderna critica biblica, strenuo difensore della libertà di pensiero.




PARTE TERZA


Se Maometto è l’ultimo dei profeti, il sigillo di quelli precedenti (sura 33,40), ne consegue che egli è portatore di una “rivelazione” definitiva, perfetta, superiore, immutabile, che completa quelle annunciate agli altri popoli dai precedenti profeti legislatori. L’autore del Corano, inoltre, accusa ebrei e cristiani, la c.d. “gente del Libro” (cfr. sura 2,109), di aver falsificato le Scritture che Allah ha loro rivelato; perciò esse devono ritenersi abrogate, qualora siano in contrasto con la legge islamica. Ebrei e cristiani che rifiutano di convertirsi alla religione della verità (quella islamica), Allah comanda di combatterli e soggiogarli (sura 9,29), concedendo loro una particolare tutela (poi estesa anche ad altre fedi religiose): lo status di dhimmi, cioè di protetti dal punto di vista formale, ma, in sostanza, discriminati, giacché sottoposti a imposizioni restrittive, riguardanti diritti e libertà, e obbligati a versare umilmente un tributo (jizia). Nella penisola arabica, però, per ordine di Maometto, non sono tollerate fedi religiose diverse da quella islamica. Per miscredenti e politeisti, invece, il Corano prescrive l’unica tragica possibilità: l’Islam o la spada, tertium non datur. Chi non si converte e passibile di pena di morte (sura 9,5.73.123). Il Corano, infatti, esclude che Allah possa accettare culti diversi dall’Islam (sura 3,85) e, al fine di garantire che la religione sia tutta per Allah, comanda di combattere gli infedeli (sure 4,89; 8,12.39), vietando di allearsi con loro (sure 3,28; 5,57; 60,1). La migliore comunità umana, parola sacrosanta di Allah (sura 3,110), è quella musulmana (ummah). La solidarietà nella ummah deve essere intesa non solo tra i musulmani (anche se disattesa a causa dalle divisioni di natura politica, economica, giuridica, religiosa), ma soprattutto contro i non musulmani (nei confronti dei quali il fattore religioso unitario della ummah è indiscusso). Al musulmano è precluso il diritto di lasciare la sua religione. Tremenda è la punizione, in questo mondo e nell’altro, decretata da Allah per gli apostati (sure 2,217; 3,90; 4,137, 5,54; 9,66.74; 16,106; Sahih Bukhari, hadith v.9, l.84, n.57.58). L’apostata, infatti, non solo rischia la pena capitale, ma anche sanzioni civili (scioglimento del matrimonio e privazione del diritto di successione e della custodia dei figli).

Durante il periodo in cui Maometto inizia a predicare alla Mecca, vieta ai compagni, convertiti al “verbo” di Allah, il ricorso a guerre di vendetta contro i politeisti, esortandoli alla tolleranza (sura 16,126-127). Costretto a emigrare con i suoi compagni a Medina (ègira) per sfuggire alla persecuzione dei suoi nemici, Maometto fonda lo stato politico islamico e ordina ai musulmani di combattere senza tregua gli infedeli. Allah lo vuole! La vittoria sui miscredenti è da Lui garantita (sure 2,190-193.216.286; 4,71.74; 8,7-8.12-17.60-61.65; 9,3-5,29,38-39; 22,39-40; 47,4.35.38). Tutta la comunità musulmana (ummah) è chiamata a compiere un dovere, perenne e irrinunciabile: la lotta incessante per la conversione all’Islam di tutte le genti della terra (c.d. “guerra santa”, ossia il jihad, difensivo e offensivo), espandendo i territori assoggettati all’Islam. La giurisprudenza islamica, infatti, ha contrapposto i paesi conquistati da Maometto e dai suoi seguaci, che sono sottoposti al dominio dell’Islam (dar al-Islam è il territorio governato dalla Shari’ah), ai paesi in cui vivono gli infedeli, gente impura (sura 9,28), da soggiogare prima o poi al dominio musulmano (dar al-harb è il territorio della guerra, giacché dimora della miscredenza, dar al-kufr). Il dar al-Islam è l’unica vera patria dei musulmani, essendo i credenti tutti fratelli nella religione di Allah (sure 4,3; 9,11; 49,10). Ne consegue che tutti i paesi islamici hanno il dovere di accogliere come fratelli ogni musulmano che vi emigra. L’emigrazione dei musulmani nella “terra degli infedeli”, fermo restando l’impegno inderogabile di ogni emigrante musulmano a partecipare alla guerra santa, è vista con favore da molti islamisti, perché la crescente presenza della popolazione musulmana, rigidamente chiusa nella difesa delle loro tradizioni, favorirebbe la diffusione dell’Islam, soprattutto laddove concorrono valori che promuovono il pluralismo e il multiculturalismo e tutelano le diversità e le differenze. Secondo l’opinione di taluni islamisti radicali, l’emigrante musulmano, che scelga la nazionalità di un paese non musulmano, ancorché conservi quella originaria, sarebbe un apostata, passibile di pena di morte, perché commetterebbe un atto proibito dal Corano.

L’autore del Corano afferma che il “verbo” di Allah, Signore dei mondi, che parla in lingua araba a Maometto, nobilissimo Messaggero, non è espressione di un poeta o di un indovino. Aggiunge che nulla di suo il Profeta ha aggiunto e, qualora fosse stato mendace, Allah gli avrebbe reciso la vena del cuore (sura 69,40-47). Queste nette affermazioni del Corano non provano la sua autenticità, ossia la provenienza divina del testo. Del resto, sia il Corano sia la Sunnah sono entrambi influenzati per la gran parte dalla Bibbia (specialmente in materia di norme penali e prescrizioni alimentari). La circoncisione dei bambini maschi, invece, ancorché non prescritta dal Corano, è una pratica resa obbligatoria dalla tradizione. Tradizione e costumi ancestrali condizionano anche la pratica barbara della circoncisione femminile. Il Libro sacro dell’Islam, diretta espressione della volontà di Allah scesa su Maometto, non è esente da versetti che appaiono indegni rispetto a ciò che dovrebbe essere una corretta concezione della divinità Ad esempio, la divinità non può essere concepita antropologicamente, come un’entità guerresca e vendicativa, che nutre sentimenti di odio.

I precetti coranici prettamente religiosi riguardano gli atti rituali di culto, definiti “Pilastri dell’Islam”, non menzionati esplicitamente nel Corano. Essi sono:
- la professione di fede islamica (shahada), secondo la quale non esiste divinità all’infuori di Allah e Maometto è il suo infallibile Profeta; essa non ha un diretto riscontro nel Corano, se non come interpolazione di differenti versetti (cfr. sure 37,35; 48,29);
- l’adorazione quotidiana ad Allah, mediante il rituale della preghiera (salah) giornaliera e della preghiera collettiva il venerdì (cfr. sure 11,114; 17,78-79; 24,58; 50,39-40; 62,9; 76,25-26); il Corano, tuttavia, non chiarisce il numero di volte della preghiera giornaliera né specifica le modalità del rituale;
- l’imposta coranica obbligatoria (zakat), finalizzata, per un verso, alla giustizia sociale, per non incorrere nelle pene dell’Inferno (cfr. sure 69,30-37; 74,40-44), per un altro verso, alla lotta contro la miscredenza (cfr. sura 9,103.60); il Corano non specifica l’aliquota da applicare;
- il digiuno (sawm) nel mese di Ramadan (cfr. sura 2,183-187);
- il pellegrinaggio (hajj) ai luoghi santi dell’Islam (cfr. sure 2,196-200; 3,96-97; 22,27-33), rito già in uso presso gli Arabi politeisti.

Seguono poi le prescrizioni riguardanti i cibi, le bevande, i giuramenti, la caccia e le uccisioni rituali. Dovere religioso fondamentale è la “guerra santa” (jihad), considerato sesto pilastro dell’Islam, intesa alla conquista di quella parte del mondo non ancora islamizzata. Ingenuo è credere che il jihad sia soltanto una lotta morale. Suo precipuo scopo è estendere il territorio dominato dall’Islam (dar-al-Islam), mediante la propaganda (sure 25,52; 49,15) e la lotta, anche armata, contro gli infedeli (sure 2,216.244; 3,169; 4,74.84.95; 8,39.57; 9,29.38.73.111; 22,78; 61,4; 66,9; ecc.). L’Islam non ha liturgie, ma rituali da osservare in modo scrupoloso. Non ha sacramenti, ma pratiche a carattere religioso, come il rito (non prescritto nel Corano) della circoncisione maschile (antico rito originario dei popoli primitivi africani come iniziazione prematrimoniale) e femminile. Non ha clero, ma semplici funzionari addetti al culto presso le Moschee o all’insegnamento mnemonico del Corano nelle Madrasse. L’Islam (non il Corano) è ostile all’esecuzione e all’ascolto della musica “occidentale”, anche di quella “classica”, nonché all’arte dello spettacolo, specialmente se al femminile, e al gioco degli scacchi.

Nel diritto islamico i reati (peccati), come il furto, l’adulterio, l’apostasia, sono puniti con pene fisse, decretate dal Corano o dalla Tradizione. I reati (peccati) meno gravi, sono puniti con pene discrezionali. La gravità del reato esclude la possibilità della remissione totale o parziale della pena o la commutazione in una minore. Non è permesso perdonare per il reato di adulterio. In materia di omicidio, il Corano (sure 2,178-179; 4,92; 5,32.38.45; 17,33) prescrive e giustifica l’applicazione della c.d. “legge del taglione” (pena del contrappasso, che consiste nella rigorosa corrispondenza della pena alla colpa). Nel caso in cui il danneggiato o l’avente diritto perdona il responsabile, questi può non scontare la pena, pagando in alternativa il prezzo del sangue. Per coloro che si rendono colpevoli di atti criminali contro l’Islam e che seminano la corruzione sulla terra, il Corano (sura 5,33) decreta la pena di morte, anche mediante crocifissione del reo, oppure il taglio della mano e della gamba da lati opposti o l’esilio (gradualità della sanzione in base alla gravità della colpa commessa). Sono prescritte sanzioni anche per l’inadempimento di doveri religiosi (apostasia, non osservanza del digiuno, inottemperanza alle preghiere rituali quotidiane). Il suicidio è uno dei maggiori peccati nell’Islam (sure 2,195; 4,29), a meno che non sia compiuto come martirio connesso al jihad per il trionfo dell’Islam.

Sulla vita (Sira) di Maometto, oltre i pochi cenni nel Corano, le uniche fonti sono talune biografie, non esenti da versioni contraddittorie inerenti il medesimo fatto. La prima sintetica Sira fu redatta un secolo e mezzo dopo la sua morte; le altre, più estensive, tre secoli dopo. Se poi si va a compulsare la miriade di detti e fatti attribuiti al Profeta o a uno dei suoi compagni (cioè gli hadith, la maggior parte dei quali si reputano di scarsa autenticità), si costata un’esagerazione fabulatoria consistente nella moltitudine di episodi di scarsa rilevanza, descritti con pedanti minuzie, che mostrano preconcetti, superstizioni, ossessioni sessuali. Raccapriccianti e disumane sono le pene (mutilazioni, lapidazioni, omicidi, rappresaglie, ecc.) che il Profeta avrebbe inflitto anche per lievi colpe. Si costata poi la scarsa considerazione per le donne (la maggioranza dei condannati all’Inferno sono donne, secondo un detto di Maometto) e si lodano le prodezze sessuali del Profeta. Abbondano le maledizioni a danno di ebrei, cristiani, eretici, politeisti e miscredenti, contro i quali si esortano i musulmani a combatterli. Rilevante è l’autoritarismo religioso e politico del Profeta, che si riflette nel culto della sua personalità. Obbedire o disobbedire a Maometto è come obbedire o disobbedire ad Allah. La tendenza a mitizzare persone e fatti è comune a popoli spiritualmente immaturi.




PARTE QUARTA


Si riportano di seguito alcuni esempi di estrema intolleranza, desumibili dalle sure del Corano, che il buon senso rifiuta di credere che siano la parola di Dio, parendo piuttosto meri risentimenti umani. L’intolleranza islamica, infatti, discrimina le persone in base alla fede religiosa.

Già con la sura 1 l’autore del Corano manifesta indirettamente l’ira di Allah (l’intolleranza) contro ebrei, cristiani e miscredenti. Prosegue con la sura 2, dove manifesta la collera e l’odio implacabile di Allah contro tutti i miscredenti, maledicendoli, tacciandoli di stoltezza, paragonandoli a scimmie reiette e a bestiame; perciò predestinati a un castigo immenso, doloroso, terribile, avvilente, in questa vita, e a bruciare in perpetuo nel fuoco della fornace infernale, nell’altra vita. Allah ha posto un sigillo sui loro cuori incirconcisi e sulle loro orecchie, e un velo sui loro occhi. Ha aggravato la malattia che alberga nei loro cuori. Allah incita più volte i musulmani, anche se non lo gradiscono, a combatterli e a ucciderli ovunque li trovino. Nella sura 3, Allah taccia i miscredenti di essere rabbiosi, profetizzando che saranno sconfitti, umiliati e fatti a pezzi. Egli getterà lo sgomento nei loro cuori, annientandoli. Nella sura 4, Allah afferma che nemico manifesto del musulmano è il miscredente; perciò incita i credenti a combatterli e a ucciderli ovunque, giacché sono alleati di Satana. Promette che saranno gettati presto nel fuoco infernale, dove patiranno sadiche pene: cambierà ogni volta la loro pelle consunta dal fuoco, affinché ciascuno gusti in perpetuo il tormento. Nella sura 5, l’autore minaccia la pena della crocifissione e atroci mutilazioni contro chi osa far la guerra ad Allah e al suo Profeta. Nella sura 6, Allah minaccia i miscredenti di dissetarli nell’aldilà con acqua bollente, abbandonandoli alla perdizione. Nella sura 8, afferma che getterà il terrore nel cuore dei miscredenti e incita i musulmani a colpirli tra capo e collo e su tutte le falangi. Esorta il Profeta affinché inciti i credenti alla lotta e a non fare prigionieri, finché non avrà completamente soggiogato la terra. Allah si assume la piena responsabilità per gli eccidi che i musulmani compiranno contro i miscredenti, che saranno sbaragliati fino all’ultimo. Come se non bastasse, nell’aldilà, prima di essere gettati nel fuoco infernale, gli angeli li martirizzeranno, colpendoli nel volto e tra le spalle. Nella sura 9, Allah ordina ai musulmani di fare la guerra ai miscredenti, tendendo loro agguati, assediandoli, catturandoli, uccidendoli ovunque li incontrino. Essi avranno come dimora l’Inferno. Ebrei e cristiani, invece, una volta soggiogati, potranno essere tollerati sotto condizioni discriminatorie. Nella sura 10, minaccia di punirli nell’altro mondo con un doloroso castigo, abbeverandoli con acqua bollente. Nella sura 14, afferma che li distruggerà, destinandoli alle pene infernali, dove si abbevereranno di acqua fetida, che cercheranno di inghiottire a piccoli sorsi, senza riuscirvi, mentre la morte li assalirà da ogni parte, senza che potranno morire. Il loro castigo sarà non attenuabile. Subiranno umiliazioni, appaiati nei ceppi, con vesti di catrame e i volti in fiamme. Nelle sure 17 e 18, assicura di aver preparato per i miscredenti un’atroce dimora e una terribile bevanda di fuoco infernale. Quando, circondati dalle fiamme, imploreranno da bere, saranno abbeverati di un’acqua simile a metallo fuso, che ustionerà i loro volti. Nella sura 22, aggiunge che saranno tagliate vesti di fuoco per i miscredenti e sulle loro teste sarà versata acqua bollente, che fonderà le loro viscere e la loro pelle. Per sovrappiù, saranno colpiti con mazze di ferro, e tutte le volte che cercheranno di fuggire, saranno ricacciati e mandati a gustare il supplizio della fornace. Nella sura 25, ordina di non obbedire ai miscredenti, ma di lottare mediante la predicazione del Corano, ossia con la propaganda e la persuasione.

Nella sura 30, afferma che l’Islam è la vera religione e che i miscredenti non avranno soccorritori, poiché Lui non li ama ed è un vendicatore. Nella sura 33, esorta i credenti a scendere in guerra contro gli infedeli, maledicendoli. Dovranno essere scovati, catturati e messi a morte. Nella sura 47, ordina di decapitarli durante il combattimento, facendone grande strage, finché i superstiti non saranno soggiogati all’Islam. Nelle sure 72 e 98 li minaccia con il fuoco perpetuo dell’inferno, luogo terrificante e d’indicibili sofferenze, peggiore dell’inferno dantesco. Persino il tenebroso Tartaro, creazione della mitologia greca, parrebbe un paradiso in paragone degli orribili, sadici, infernali castighi, cui sono destinati infedeli e peccatori, secondo le credenze musulmane e cristiane (come quelle decantate dal Sommo Poeta).





I DIRITTI DELLE DONNE


La donna nell’Islam non beneficia interamente dei fondamentali diritti umani e civili (che gli islamici radicali giudicano essere costumi prettamente occidentali). Il valore di una donna dipende soprattutto dalla sua sottomissione all’Islam e all’uomo (sura 60,10). Questa rigida e atavica concezione maschilista, impedisce l’emancipazione sociale e politica della donna, considerata peraltro imperfetta (sura 43,16-18), giacché creata dall’uomo per l’uomo (sura 30,21). Il maschio, parola di Allah (sura 2,228), è superiore alla femmina. Un’analoga concezione è espressa nelle epistole paoline (cfr. 1 Co 11, 3-10; 14, 34 seg.; Ef 5, 22 seg.; Col 3, 18; Tt 2, 5; 1 Tm 2, 11-15; 1 Pt 3, 1.5) e in numerosi passi dell’Antico Testamento (dove la donna subisce il potere dell’uomo e considera suo marito signore e padrone). Allah comanda che all’uomo spetti la guida della famiglia. Egli ha preminenza sulla donna, giacché a lui va la preferenza di Allah. Entrambi, però, devono agire rettamente nel proprio ruolo (sura 4,32.34). Il musulmano non può sposare donne miscredenti né dare spose ai miscredenti (sura 2,221). Può invece sposare donne ebree e cristiane (sura 5,5), purché virtuose e disposte ad accettare limitazioni di taluni diritti (ereditari e sui figli). La donna, invece, può solo sposare un musulmano. Anche nella Bibbia si ammonisce di non prendere mogli tra i popoli idolatri. Isacco, ad es., comanda a Giacobbe di non prendere moglie tra le figlie di Canaan, ma di cercarla tra i parenti della madre (Gn 28,1-2). In molti paesi islamici perdurano costumi tribali inerenti al matrimonio forzato di giovani donne con uomini anziani e le umilianti e dolorose mutilazioni genitali alle bambine (ablazione parziale o totale del clitoride; infibulazione). La circoncisione femminile, che priva le donne del diritto alla sessualità, si giustifica per preservare la verginità, evitando che gli stimoli sessuali possano indurle al vizio e alla perdizione. L’attenuazione del piacere sessuale nelle donne circoncise, aiuterebbe l’uomo poligamo a meglio dominarle sessualmente. Il Corano paragona la donna a un campo d’aratura (come nei miti ebraici), dove l’uomo va a seminare come e quando vuole (sura 2,223). Ne consegue che la donna, anche quando non ha voglia, è tenuta a soddisfare i desideri sessuali del marito. Negarsi ai desideri sessuali del marito è una grave disobbedienza, passibile di pena per inadempienza a un dovere religioso. L’insubordinazione della donna è punita mediante graduali sanzioni: ammonizioni, privazione del sesso, percosse, al fine di costringerla all’obbedienza verso il marito (sura 4,34). Il matrimonio islamico non è indissolubile. La donna, però, non ha piena facoltà, come l’uomo, di ripudiare il coniuge (cfr. sure 2,226-237.241; 4,35.128; 33,49; 58,3-4; 65,1-5). Lo stato d’inferiorità della donna si evidenzia anche nel diritto ereditario (sura 4,11-12.35.130.176) o nei casi in cui sono chiamate a testimoniare per dirimere una controversia (sura 2,282). Le donne che commettono azioni infami (fornicazione, lesbismo, ecc.), vanno punite anche mediante condanna a morte (sura 4,15-16); se commettono adulterio, sono punite senza misericordia con cento frustate (sura 24,2). La pena della lapidazione per il reato di adulterio, comminata in taluni stati islamici, è prescritta dalla Sunnah, non dal Corano. La Bibbia, invece, prescrive espressamente la lapidazione per gli adulteri (cfr. Lv 20,8seg.) Talune comunità sciite hanno legalizzato il “matrimonio a tempo” per rendere leciti i rapporti sessuali fuori del matrimonio (prostituzione mascherata). L’istituzione del “matrimonio temporaneo” (di piacere) sarebbe lecita in base alla sura 4,24. Dagli oppositori è considerato uno stratagemma per aggirare il divieto di prostituzione. In Egitto è in uso il “matrimonio segreto” (c.d. consuetudinario), contratto alla presenza di due testimoni e di un notaio, tra i giovani che non hanno possibilità economiche per sposarsi ufficialmente. In caso di scioglimento del matrimonio segreto, la donna deflorata può ricorrere a un chirurgo per ripristinare artificialmente la verginità, salvando la faccia (e l’onore della famiglia), qualora debba convolare ufficialmente a nozze. La donna che subisce violenza sessuale deve produrre quattro testimoni maschi per ottenere giustizia (sura 24,4-13). Essendo lecita la poliginia (sura 4,3), cioè l’esclusivo diritto dell’uomo di sposare più donne, queste sono costrette a convivere con altre mogli (salvo che nella stipulazione dell’atto di matrimonio sia apposta la clausola, espressamente prevista in Giordania e nel Marocco, che vieta all’uomo di sposare un’altra donna). La forzata convivenza delle donne sposate a un solo uomo può degenerare in trattamenti iniqui e conflitti, che possono poi perpetuarsi nei rispettivi figli. Alle donne non è lecito sposare più uomini (poliandria). Celibato e nubilato sono disapprovati: l’uomo e la donna hanno il dovere di procreare (cfr. sura 24,32). Maometto ebbe il privilegio, rispetto agli altri credenti, di avere diciassette mogli e schiave concubine ad libitum con cui copulare secondo il suo gradimento (diceva di avere la potenza di trenta o quaranta uomini nei rapporti sessuali, in virtù di una portentosa pietanza servitagli dall’angelo Gabriele). Allah gli rese lecito sposare la nuora e cugina Zaynab, moglie di suo figlio adottivo Zayd, previa abolizione dell’istituto dell’adozione (sura 33,4-5). Nessun peccato grava su Maometto per ciò che Allah gli impone (cioè di sposare la nuora): l’ordine di Allah è assoluto, indiscutibile, eseguibile senza indugi (sura 33, 36-40). A Maometto e alle sue spose (cui era proibito risposarsi, se ripudiate o rimaste vedove) si doveva il massimo rispetto sacrale (sura 33,50-53). Il Corano (come la Bibbia), libro del suo tempo, legittima la schiavitù (diffusamente considerata, fin quasi ai nostri tempi, come fatto naturale). Ogni musulmano, cui Allah concede di avere fino a quattro mogli, può invece possedere un numero illimitato di schiave concubine. Questa divina concessione ai maschi musulmani annulla i fondamentali diritti della donna (sure 2,178.221; 4,3.24-245; 24,32-33; 70,29-30). Le donne musulmane - ordina Allah - devono praticare la modestia, coprendosi in pubblico il corpo (uso del velo religioso, hijab), tranne viso e mani, e tenere in pubblico lo sguardo basso (sure 24,31; 33,59). Le donne, in sostanza, non devono mostrare a estranei le bellezze (vergogne!) del loro corpo. L’uso del velo, esplicitamente indicato nel Corano per coprire il seno, è un’eredità culturale antica, un’usanza diffusa anche in paesi non islamici. Nei paesi occidentali le donne musulmane lo indossano non solo per costume o per dovere religioso o come espressione della propria identità, ma soprattutto per evitare di essere tacciate di apostasia dai propri correligionari radicali e subire minacce di morte. Se poi fossero costrette a non indossarlo, in forza delle leggi di uno stato che vuole salvaguardare i valori della laicità (come in Francia), non sembrerebbe che commettano infrazione alle norme coraniche, secondo quanto disposto dalle sure 2,173 e 16,106. Il burqa e il niqab, invece, sono costumi tribali in uso presso taluni paesi orientali. Sono indumenti che nascondono completamente l’identità della persona, opprimono la libertà e la dignità della stessa, ledono il principio di uguaglianza, negano il diritto di esistere come donna, relegandola, in nome di Allah, a uno stato d’inferiorità e all’ubbidiente sottomissione all’uomo, che non potrà conoscerla prima del matrimonio. Allah lo vuole? O lo vuole il condizionamento culturale della società in cui vivono e dove sono segregate e costrette a subire uno stato d’inferiorità giuridica e sociale? Anche il cristiano Paolo di Tarso (cfr. 1Co 11,3-16), l’apostolo delle genti, prescriveva alle donne di portare, durante le pubbliche assemblee, il velo sul capo come segno di dipendenza dall’uomo e per riguardo agli angeli (!). Forse Paolo aveva presente quel passo di Genesi (6,2-4) in cui si racconta di angeli sedotti dal fascino delle donne. Uomo del suo tempo, Paolo, peraltro, non condanna la condizione di schiavitù dell’epoca (cfr. 1 Co 7,20-21; Col 3,22-25; 4,1; 1 Tm 6, 1-2; Lettera a Filemone). Non meno rigorose furono le norme sull’abbigliamento durante il medioevo cristiano, soprattutto per monaci e monache (le donne, in particolare, dovevano osservare la massima modestia e non dovevano mostrare i capelli). La prassi delle donne di coprirsi la testa con un velo era diffusa anche tra i Giudei (Gn 24,65; Dn 13,32).





CONCLUSIONE


Da quanto sopra esposto, si evince che il Corano, nella sua integrità, appare inconciliabile sia con i principi normativi e i valori spirituali laici dei paesi c.d. “occidentali”, sia con la visione ecumenica di stampo cattolico. La mancanza di un’accurata storicizzazione (attualizzazione) e dissacrazione (esegesi critica) del Corano, rende difficoltoso il dialogo con gli islamici, anche se non estremisti. La religione, giacché si fonda sull’accettazione acritica di postulati indimostrabili, assunti per fede come verità assoluta, implica il dubbio, non la certezza. Solo per fede si può credere che il Corano recitato da Maometto sia la diretta parola di Allah. Scarsa affidabilità, dal punto di vista storico-filologico, ha l’acritica pretesa dei musulmani che l’attuale testo letterario del sacro Libro sia autentico e conforme alle parole recitate originariamente da Maometto, data l’assenza di prove inconfutabili con cui si possa dimostrare che il testo coranico non è stato rimaneggiato prima della sua tardiva e definitiva redazione (manca, peraltro, una moderna edizione critica del testo).

Secondo un principio umanistico, l’uomo non è soggetto a un ente divino, bensì all'intelligenza, alla ragione e all'esperienza del suo essere nel mondo, titolare per natura di propri diritti inalienabili, al pari di altri esseri viventi, libero di pensare in modo autonomo e di apprendere in modo critico.

In un mondo globalizzato è inevitabile il confronto tra differenti culture, costumi di vita, livelli di sviluppo economico e sociale, che spesso traligna nel conflitto tra civiltà e inciviltà (come quella fomentata dal terrorismo e dallo pseudo martirio, suicida e omicida, d’islamisti estremisti). Giacché siamo persone razionali, e come tali comprendiamo che né la scienza né le religioni possiedono verità assolute, non ci resta che, in condizioni d’incertezza, imparare a dubitare, accettando ciò che appare razionalmente vero fino a prova contraria. La ricerca della conoscenza non può prescindere dallo spirito critico. Solo mediante il dialogo e la condivisione di regole universali di coesistenza internazionale e di tutela della dignità umana potremmo impedire conflitti generati dalle diversità delle culture e pervenire a compromissorie soluzioni per una reciproca e pacifica convivenza.

L’emigrante che proviene da paesi con valori culturali diversi e opposti a quelli del paese di accoglienza, deve in parte rinunciare ai propri costumi, se questi sono in contrasto con le leggi del paese ospitante, altrimenti è inevitabile il conflitto tra le due opposte culture, che tendono l’una a prevalere sull’altra. Il multiculturalismo non è praticabile, se l’emigrante non accetta l’integrazione (cioè l’assimilazione della nuova cultura, l’adeguamento di mentalità, il secolarismo, i principi liberal-democratici, ecc.), perché ciò porterebbe alla formazione di una comunità (quasi un’enclave) chiusa nella difesa della propria identità culturale, come quella islamica, che potrebbe rivendicare una propria autonomia etico - politico - giuridica, per mezzo della quale pervenire all’egemonia nel territorio di uno stato non più sovrano. L’applicazione della legge islamica, poiché disciplina la vita religiosa, sociale e politica dei musulmani in tutti i suoi aspetti di vita, porta inevitabilmente a una società totalitaria, che non tollera le libertà democratiche (di pensiero, di discussione, di critica, di coscienza, ecc.) ed è causa del radicalismo estremista, teso a distruggere tutto ciò che si oppone all’Islam. Sarebbe invece auspicabile che la coesistenza tra diverse etnie e culture nell’ambito di un medesimo stato trovasse fondamento nell’accettazione di valori condivisibili, che portino al superamento dei conflitti mediante la formazione di una nazione fondata sulla coscienza unitaria di natura etico - politica.

L’accusa di “islamo-fobia” da parte di islamisti radicali non metterà a tacere le voci del dissenso, né una fatwa di morte, emessa da un mullah da quattro soldi, che strumentalizza la religione in licenza di uccidere, potrà intimorire la libertà di chiunque voglia pensare ed esprimere il proprio pensiero critico contro ogni forma di oppressione. Si spera che un giorno non lontano l’uomo dell’Età della Ragione e della Spiritualità Laica smetta di perseguire illusioni nell’aldilà, inventando storie irreali per dare un significato alla propria esistenza. Ognuno di noi deve trovare la propria via in armonia con l’ordine cosmico, vivendo nel presente, nella quotidiana realtà, arricchendo il suo spirito di saggezza e la sua mente di conoscenze concrete, lasciandosi guidare dalla sua intelligenza, dall’uso critico della ragione, dalla consapevolezza dei propri limiti.

Nulla di troppo!

Lucio Apulo Daunio



BIBLIOGRAFIA

Traduzioni e commenti del Corano a cura di:

BAUSANI A.; BONELLI L.; COOK M.; MANDEL G.; MORENO M. M.; NOJA NOSEDA S.; PICCARDO R. H.; VENTURA A.





Articoli correlati:









Nessun commento:

Posta un commento